Il soggetto dello sguardo

Lo sguardo è il tramite attraverso cui un mondo guarda un altro mondo.

Il proprio sguardo non è “proprio”, ma è del mondo che guarda: a noi, al soggetto, è restituita soltanto la relazione tra il mondo che guarda e il mondo guardato. In prima istanza tale relazione assegna al soggetto un tempo e una posizione riconoscibili che consentono alla coscienza del soggetto di trovarsi, poi, nel sedimentarsi degli “stati” (dove e quando) dell’esser(ci)e si producono i significati e, infine, il senso delle cose, che comprende, si intente, anche se stessi.

Ma tutto ciò ritorna ad appartenere ai mondi che guardano altri mondi.

Cosa si intende per mondi che guardano altri mondi? È lecito esigere chiarezza in tal senso senso, ma per arrivare ad ottenerla ritengo si debba seguire tutto il percorso riflessivo, che parte propriamente dal soggetto.

Dunque che resta nel soggetto? E quindi, ancora più ontologicamente, che resta del soggetto?

Per provare a rispondere innanzi tutto dobbiamo immaginare di “togliere” il soggetto dallo sguardo. Infatti lo sguardo si compone del soggetto insieme al mondo che guarda. Ancora meglio: il mondo che guarda fa sì che il soggetto abbia uno sguardo.

Compiuta questa separazione ci ritroviamo un soggetto senza sguardo e quindi uno sguardo senza soggetto. Nello sguardo senza soggetto il mondo continua a guardare un altro mondo? E dall’altro lato, un soggetto senza sguardo (senza mondo che guarda) come e cosa guarda?

Una prima obiezione a questo procedimento mentale è quella di non poter pensare un soggetto separato dallo sguardo: il soggetto è tutt’uno con lo sguardo, non possiamo considerarli separati.

Questa posizione può tuttavia esser vera soltanto in due situazioni. La prima prevede un’identificazione completa, ontologica, tra soggetto e sguardo: ovvero il soggetto è lo sguardo e lo sguardo è il soggetto. Se invece, nella seconda situazione, vogliamo preservare la specificità del soggetto rispetto allo sguardo e viceversa, allora l’identificazione andrà a vertere sulla stessa sostanza di cui entrambi sono composti.

La seconda situazione ci aiuta ad affrontare la prima, la quale a sua volta ci condurrà di nuovo alla seconda.

Qual è la sostanza dello sguardo? E del soggetto?

Ma prima dovremmo ancora chiederci qual è la sostanza del mondo che guarda?

Possiamo dare pure per scontato che la sostanza della realtà sia la materia. Ma per ciò che attiene al mondo che guarda, attraverso lo sguardo, un altro mondo, si tratta di contenuto. Che è altresì contenuto nello sguardo del soggetto che guarda. Materialmente, a questo punto, diremmo che questo contenuto si trova nel cervello: ma quanto detto è in effetti una pura ammissione perché dove sia, effettivamente, non è definibile, infatti nel cervello si elabora, si produce e si trasmette, e questo “si vede”, ma non si vede ciò che si elabora, si produce e si trasmette, eppur si vede: ma questa è un’altra storia… o no?

Pensiamo a ciò che si trova nel cervello nella forma di contenuto: l’immagine di una fresca e limpida mattina di primavera o l’immagine del fuoco di un camino che crepita tenue o l’immagine di un sentiero di montagna che si perde nel bosco; tutto questo è materia? O è immagine della materia? (Ah! Platone…).

Difficile a dirsi: la faccenda è molto dibattuta, ma non ci interessa adesso, fino in fondo.

Potremmo cavarcela alla maniera di Spinoza, dicendo che si tratta di sostanza (come tutto il resto), ma torneremmo al punto di partenza: che tipo (modo, per accontentare gli spinoziani) di sostanza?

Potremmo dire che si tratta di sostanza immaginale, ma così daremmo soltanto lo stesso nome al nome che stiamo cercando di interrogare: si sente odore di tautologia e non andiamo da nessuna parte. Anche tale questione resta piuttosto aperta e anche in questo caso, adesso, non ci interessa.

Possiamo accordarci però su una cosa: dare al mondo contenuto nella nostra testa la proprietà dell’oggetto, in quanto osservabile come il mondo esterno, reale. È un mondo che vediamo davanti a noi (o dietro), che sia dentro o che sia fuori, il mondo interiore come quello esteriore sono sostanza oggettiva (oggettuale?)

Passiamo a questo punto alla sostanza dallo sguardo. È plausibile ritenere che il mondo che guarda un altro mondo tramite lo sguardo, sia nello sguardo stesso, nel senso in cui lo costituisce oppure lo compone; per quanto sia comunque complesso rintracciare le composizioni semantiche tra contenuto immaginale e sguardo fintanto che un altro elemento è assolutamente fondamentale che agisca: il soggetto

Interroghiamoci sulla sostanza del soggetto dunque. È possibile pensare ad una sostanza del soggetto?

Più precisamente, è possibile osservare il soggetto?

Potremmo dire di sì, ma dovremmo anche renderci conto che ogni volta che lo facciamo lo riconduciamo ad oggetto ed esso svanisce. E ciò non avviene soltanto in forza della dimensione nominale a cui soggetto e oggetto fanno riferimento: è sostanziale il fatto che tutto ciò che possiamo osservare del soggetto è la sostanza oggettuale che gli sta intorno, sempre più intorno, in una riduzione, se si vuole, anche potenzialmente infinta, dalla quale il soggetto perennemente non può che sfuggire.

Possiamo provare a considerare la soggettività, come è stato fatto per la coscienza (che non è propriamente la stessa cosa), una proprietà emergente (Searle). Il soggetto, pur non appartenendo alla dimensione materiale (neuronale ecc.) del cervello, può emergere da essa; in altri termini la dimensione materiale può essere in grado comunque di produrre la dimensione soggettiva senza che quest’ultima debba essere composta dalla stessa sostanza di ciò che la produce, ma da un’altra.

Non ci interessa qua chiederci di quale sostanza si tratti, altro argomento molto spinoso, ma tuttavia nell’identificare il soggetto come proprietà emergente, andiamo, nei fatti, a determinare la soggettività come qualcosa che la caratterizza nell’espletarsi non nell’essere, in quanto tale, soggetto. Infatti, affinché si possa determinare qualcosa bisogna che sia (di nuovo) osservabile (non sto dicendo visibile, è chiaro?), ma l’osservabilità è qualcosa che a sua volta viene determinata dall’osservatore, anch’egli determinabile in tutto, ma non nella sua soggettività, la quale fa sì che esista l’osservazione stessa. Diciamolo con un Kant ritrovato (perché si era perduto? Direi…): l’oggetto è tale perché osservabile, ed è osservabile solo dal soggetto e grazie ad esso, ricondurre il soggetto a qualcosa di osservabile, quindi ad oggetto, produrrebbe, per assurdo, la scomparsa dell’oggetto perché non ci sarebbe niente ad osservarlo.

Sempre che non si voglia credere che un oggetto possa osservare un altro oggetto, perché dovremmo chiederci convintamente: in che modo?

Riprendendo quanto posto all’inizio di tutto questo discorso, possiamo rispolverare la catena filosofica Kant-Husserl e dire che il soggetto è trascendentale e non trascendente, nella sua irriducibilità esso trascende (e determina) sempre l’oggetto; da cui però è circondato, o per meglio dire, posto. Infine potremmo altresì parlare di soggetto incarnato che, però, non “ascende” dall’oggetto (mondo) in nessun (non) luogo e (non) tempo. Piuttosto nella storia dell’umanità sembra essere contratto dalla sostanza oggettuale all’interno di una dimensione sempre più ridotta che lo contiene ma allo stesso tempo non lo assorbe mai. Tale limite invalicabile della sostanza oggettuale pare essere, a pensarci bene, la coscienza.

E quindi, cosa diciamo dello sguardo?

Noi siamo costituiti dalla sostanza del mondo e ne rispecchiamo le proprietà sia in termini fisici che di contenuto immaginale: evoluzione, mutamento, trasformazione, energia, dissoluzione, vitalità, deperimento ecc. Tutto questo si manifesta concentrato in ogni nostro sguardo che produce potenzialmente infinite prospettive di un mondo che guarda un altro mondo e che, si intende, a sua volta è guardato.

Dunque che ne è del soggetto? Lo abbiamo detto, esso, incarnato nello sguardo, lo rende il tramite dei mondi che si guardano. In ultima istanza quindi possiamo dire che il soggetto è l’innesco della relazione. Ciò implica, a ben vedere, che il soggetto non si pone al vertice di origine della prospettiva, ma piuttosto al vertice di incontro tra infiniti mondi che confluiscono nella concentrazione dello sguardo operata della coscienza soggettiva (che non è il soggetto ma il suo limite), la quale agisce al vertice di arrivo del mondo che guarda che è anche il vertice di partenza della relazione nei termini in cui essa può produrre e restituire, appunto, nel guardare ed essere guardati, lo sguardo. La dimensione limite, di frontiera, di dogana, dello sguardo, che guarda ed è guardato, non si limita nel riconoscimento, pur effettivo ed efficace, dello scambio con gli altri sguardi e col mondo, ma identifica l’azione intrinseca dell’essere guardato come indissolubilmente attiva nell’atto di guardare. Allo stesso modo il mondo dietro (dentro) e avanti a noi sono attraversati (avvolti?) nel fascio dello sguardo che parte dal punto relazionale e si protrae sia in avanti che indietro.

Qua, finalmente, possiamo dunque far chiarezza su cosa si intende per un mondo che guarda un altro mondo, la prospettiva che parte dal vertice relazionale si sviluppa in entrambi i versi come una “X”, facendo si che un mondo sia tale in tutto ciò che lo esprime in quanto mondo; nel senso che esso, per poter guardare, innanzi tutto deve essere visibile, osservabile e infine significare “mondo”. Tale mondo è oggettivo dentro ogni soggetto ed è oggettivo per ogni soggetto al di fuori di sé, nell’altra soggettività non propria che si presuppone essere – ed è – la spinta verso l’incontro, quindi la relazione, tramite lo sguardo, col mondo fuori dal soggetto.

Si deve intendere tuttavia che il dentro/fuori non sono dimensioni separate dal confine tra l’individuo e l’esterno, perché il mondo è sempre lo stesso, pur essendo osservabile e significabile in un mondo o nell’altro, ma piuttosto si tratta di dimensioni relazionali, ovvero, da cui si rivolge lo sguardo, verso chi, o ciò che, incontriamo.

Tutto ciò implica un ulteriore comprensione del soggetto che sì, è ancorato ad ogni individuo, ma allo stesso tempo abita nella relazione con l’altro, con il mondo, con l’universo.

Nient’altro possiamo dire, infine, del soggetto, al quale possiamo soltanto avvicinarci e girarci intorno, infinitamente, poiché quel limite fissato dalla coscienza, è una parete di cui possiamo coglierne soltanto il lato rivolto verso l’oggetto, l’altro rivolto verso il soggetto non può essere, in nessun modo, avvisato.