Critica della coscienza

Dunque l’illusione più grande è quella di aver creduto e continuato a credere ogni volta, di essere ciò che diveniamo. Il mantenimento in itinere di questa illusione è dovuto alla coscienza, che fissa, nella sua “presa” il divenire ri-mandandoci l’immagine al nostro riconoscimento per essere protocollata: se passa allo sportello è fatta! – Diventiamo ciò che siamo.

Questa operazione si ripete continuamente in ogni presa d’atto sul mondo, sulle cose, sull’altro, oltre che su sé stessi. Ma si intende che ogni cosa viene, attraverso procedure più o meno automatizzate, protocollata; semmai il divenire che riguarda se stessi può presentare una procedura più complicata e conseguentemente più significativa.

Per quanto il concetto possa essere digerito in termini teorici, sembra così difficile apprendere nella dimensione pratica ed effettiva che non si tratta della realtà che influenza e agisce su chi siamo, per cui tale “essere” mantiene la sua dimensione intrinseca e separata da tutto il resto, – ma ciò che siamo è quella stessa realtà che si plasma da sé, fuori e dentro di noi –.

L’unica effettiva separazione, quanto meno nella specificità del suo ruolo oltre che del suo svolgimento, è quella tra soggetto e realtà, quindi, in ultima istanza, tra soggetto e oggetto.

Cosa possiamo dire sul soggetto?

Temo che a questa domanda non si possa rispondere in nessun modo, perché se qualcosa è conoscibile essa allora è oggetto della conoscenza, non in termini meramente linguistici, ma effettivi. Del soggetto, quindi della soggettività, cosa possiamo conoscere? Perché, infondo, cosa possiamo osservare?

Prendiamo come esempio una telecamera, essa può essere osservata in ogni sua componente materiale, meccanica, non si può tuttavia pretendere da una telecamera di osservare direttamente sé stessa nell’atto del riprendere, al massimo si può riprendere un’altra telecamera uguale a quella, oppure possiamo riprendere allo specchio, ma, lo sappiamo, stiamo ancora rivolgendoci ad elementi oggettivi; infatti, per ottenere quello che vogliamo, dovremmo chiedere alla telecamera di riprendere il suo, intrinseco, riprendere, il che non significa, con un escamotage ulteriore, riprendersi mentre riprende – di nuovo saremmo nella dimensione oggettiva – ma riprendere il suo riprendere.

Quindi, per universalizzare, come possiamo, in quanto soggetti che guardano, guardare il nostro guardare?

Tuttavia la coscienza pare trovarsi a metà strada tra soggetto e oggetto, o, ancora meglio, nella posizione di ponte tra i due; da questa prospettiva allora, forse qualcosa ancora potremmo dire, ma la faccenda si profila lunga e complessa.

Nell’affrontarla dovremmo altresì tenere a mente che la coscienza opera nel far emergere i fotogrammi della nostra esistenza, producendo in questa maniera l’illusione dell’essere. Infatti le rappresentazioni della coscienza tendono a fissarsi nel tempo e nello spazio – stato illusorio dell’essere – ma in realtà sono lo specchio del divenire, come, appunto, fotogrammi, lo immortalano.

La coscienza è l’operatore che riprende e consegna le immagini della rappresentazione, mentre il regista è la realtà che emerge nel soggetto (e) che lo guida.

Osservando l’operare dell’operatore siamo in grado, in qualche modo, di risalire alle indicazioni del regista (intenzionalità): all’interno di questa relazione tra i due possiamo, sempre nell’ottica del ponte, intravedere qualcosa di quel soggetto prima che, ogni volta, sia “riempito” dalla realtà? Il soggetto ancora vuoto esiste? Cos’è? È rintracciabile, circoscrivibile? Mantiene comunque in sé residui di realtà? Di quali realtà? E di altro ancora? […]