L’illusione filosofica

La tendenza è sempre quella: “Pensare di…”.

Le condizioni preliminari, affinché si voglia far intendere a noi stessi che le nostre idee possano germogliare e crescere dentro la nostra identità esistenziale, sono che qualcosa deve avere modo di potersi compiere, ma che allo stesso tempo non giunga mai completamente a compimento. Nello specifico la prima è una condizione “necessaria” la seconda è “necessaria e sufficiente”. Questo lo si capisce.

La questione merita di essere ampliata filosoficamente; con un po’ di scaltrezza ed emancipazione dal proselitismo filosofico ci si potrebbe accorgere che siamo nel campo della gnoseologia.

Ma il termine, come al solito, è uscito dalla parte sbagliata, e la gnoseologia che conosciamo nell’ambiente filosofico non fa altro che cincischiarsi ancora con le parole prive della loro controparte: ciò che non si dice e che fa sì che ciò che si sta per dire venga detto.

Le teorie della conoscenza quindi di regola spaziano nel come l’uomo conosce e gli strumenti che utilizza. Quale rivoluzione! Niente più budella da esaminare, è tempo di contemplare bisturi, seghetti ed aghi! Ma anche se attraverso la ferraglia, questi uomini della conoscenza, si guardassero in faccia, ben altro ancora dovrebbero solcare per capire di cosa realmente si sta parlando…

Quando e se il filosofo si accorge (non è affatto scontato che ciò avvenga) di un tale “suggerimento”, neppure si schiarisce la voce; la filosofia è ricerca della verità, l’uomo è ben poco dinanzi ad essa, è effimero. Si intende, non penso che molti filosofi proclameranno queste parole, ma in sé, questo sarà il loro atto di fede che implicitamente trasforma la filosofia in religione. La filosofia si studia per la filosofia, per sé stessa, per la sua crescita, la sua teca onoraria.

Non ci si rende conto che l’atto in sé, primigenio, manifesta il dilemma stesso della filosofia: si parla di qualcosa di cui non si parla, per parlarne.

La filosofia è una disciplina, mi si dirà, è per amore di essa che la coltiviamo; un atto di amore dunque. Ma viene prima l’atto di fede o l’atto d’amore? Quale scaturisce dall’altro? Come sono vincolati l’uno dall’altro?

Il problema è che le parole sono furbe e noi ci lasciamo (volentieri) fregare. Dovremmo imparare ad usare il linguaggio contro sé stesso, far avanzare le parole sotto le spinte della baionetta che puntiamo dietro di loro.

La domanda non è da poco. Crediamo per amore o amiamo per fede?

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